Dicono che il mondo lo creò un suono / dicono che poi un canto creò un’immagine / dicono che la musica sia un antico ricordo.
Queste parole sono pronunciate in siciliano all’inizio del film, da un narratore che ci presenta uno dei più grandi clarinettisti jazz del secolo scorso, Tony Scott, figura che ha risvegliato la curiosità del regista di questo documentario, probabilmente per l’affinità musicale e la comune origine siciliana.
Il documentario “Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del mondo” di Franco Maresco, autore del famoso e discusso “Belluscone, una storia siciliana”, é prodotto da Giuseppe Bisso, con la sceneggiatura di Franco Maresco e Claudia Uzzo ed è stato presentato al Festival di Locarno nel 2010.
Tony Scott al secolo Antonio Sciacca (Morristown 17 giugno 1921 – Roma 28 marzo 2007), di origini siciliane, è stato un clarinettista americano, cresciuto musicalmente con Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Billie Holiday, Harry Belafonte e successivamente Bill Evans. E’ dunque un bianco alla corte dei neri nell’East Coast, con cui suona, e che ammira senza riserve. “Volevo suonare jazz, e frequentavo gente che non era famosa”, racconta in un’intervista. Nei locali della mitica 52esima strada di New York, Tony si fa le ossa e incontra il suo personale angelo custode, niente meno che “Bird” Charlie Parker. “Charlie Parker is my man!”, ricorda. Ma il suo clarinetto, diceva, era impossibile, “Nemmeno Bird sapeva suonarlo”. Dei suoi colleghi di strumento Artie Shaw e Benny Goodman, Scott criticava la scelta di “fare soldi con le orchestre da ballo”. Non gli interessava, diceva. Voleva diventare il miglior clarinettista jazz al mondo.
E così dopo un lungo soggiorno in Giappone, che ha lasciato molti segni nella sua musica, arriva in Italia negli anni Settanta, dove inizia a collaborare con il pianista Romano Mussolini, a suonare un po’ ovunque negli ambienti del jazz tradizionalista, lui che non era per nulla conservatore, musicalmente parlando.
Il regista ripercorre giornalisticamente tutta la carriera di Scott, che in Italia vive un iniziale successo, a Milano e a Roma, poi un lento declino. Vita irregolare e mancanza di soldi lo inducono a partecipare a feste paesane e programmi televisivi leggeri tipici della tv d’epoca berlusconiana (“il mediocre Bonolis” è una definizione di Maresco che non lascia adito a dubbi).
Ed ecco che “il miglior clarinettista al mondo”, che vive a Roma, non si è mai inserito davvero in un ambiente musicale che negli anni Settanta si politicizza, addirittura, e si divide. E diventa un personaggio. Comincia ad essere snobbato o ridicolizzato da coloro che frequentano il suo ambiente – alcuni musicisti sono intervistati nel film – per il suo attaccamento nostalgico a un’età dell’oro del jazz, per il suo carattere che va peggiorando con gli anni.
La tendenza di Tony Scott a depressione e manie di persecuzione e il suo carattere difficile finirono per portarlo alla autoemarginazione. L’ambiente dello spettacolo italiano, superficiale, irrispettoso nei confronti di questo personaggio dai trascorsi favolosi, miracolosamente atterrato nell’Italia degli anni dei varietà televisivi, lo relegò nell’angolo delle grandi stelle dimenticate, come peraltro accadde per altri nomi della musica e del cinema.
“Non è mai stato davvero capito in Italia”, afferma Enrico Rava.
Tony Scott è morto a Roma il 28 marzo 2007, ed è sepolto al cimitero di Salemi, in Sicilia.
Interessante documentario questo, che raccontando la vita di un artista, allo stesso tempo mette in luce alcuni mali italiani, come la superficialità di giudizio, la disaffezione alla cultura, lo spreco di risorse, la strumentalizzazione al soldo dello show business dei personaggi controversi, fragili o difficili. Farà riflettere anche chi non conosce il jazz, perché, come dice il regista Maresco:
“Se c’è una cosa che in Italia ci riesce particolarmente bene, questa è misconoscere il valore dei talenti di casa nostra. Dalla letteratura al cinema, passando per la musica, il nostro paese non è mai stato clemente nei confronti dei suoi figli più dotati e in questo senso, la parabola artistica ed esistenziale di Tony Scott è tragicamente paradigmatica”.
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